Oh, come è bello che un uomo abbia potuto scrivere libri come questi riempiendo di compassione il cuore della gente!
Robert Louis Stevenson
Canto di Natale non è solo l’opera universalmente più conosciuta di Charles Dickens, ma con tutta probabilità anche la più recensita e di cui è stato detto e scritto davvero tutto.
Realizzare quindi una recensione di questo testo è molto rischioso, quasi un esercizio didattico, che voglio però affrontare perché ho letto e amato quest’opera un’infinità di volte.
Sì, l’ho amata in vari e differenti modi.
L’ho amata prima con gli occhi spalancati di un bambino, che guardavano con stupore ai fantasmi della storia e dai quali, inevitabilmente, scendeva una lacrima per il piccolo Tiny Tim e che infine gioivano per il ritrovato senso del Natale. Del resto non è certo un caso che sia diventata la storia di Natale per eccellenza, che ha ispirato film, musical, cartoni della Disney, rivisitazioni e personaggi che sono nati grazie all’ispirazione del vecchio Scrooge. Il noto Paperon de Paperoni, ad esempio, si chiama infatti Scrooge McDuck in onore al personaggio Dickensiano.
L’ho amata poi con gli occhi dello studente universitario immerso nell’ennesima rilettura natalizia, dove questa volta davanti agli occhi mi balzavano elementi che prima erano solo di contorno. La disuguaglianza sociale, l’estrema povertà di un’Inghilterra vittoriana, diventata tristemente famosa per gli “Hungry Forties” – gli anni 40 della fame – in cui si dovette far leva sui sentimenti popolari di filantropia per fronteggiare la situazione di estrema indigenza in cui versava il ceto medio basso. Un fattore non certo casuale. Dickens aveva infatti letto una relazione parlamentare che denunciava lo stato di maltrattamento, sfruttamento ed estrema povertà dei bambini impiegati nelle fabbriche. Le statistiche erano impietose e lo stesso scrittore, che pur aveva toccato con mano questa situazione nelle sue lunghe passeggiate nei quartieri più degradati, ne era rimasto scioccato.
Il male sociale dell’era industriale.
Ecco perché il racconto, oltre che di forte denuncia nei confronti della “Poor Law”, è volto più alle tematiche di fratellanza e solidarietà, come contrasto di una situazione che lo aveva toccato da vicino, memore della sua esperienza in una fabbrica di lucido da scarpe causata dalla prigionia paterna per debiti. È questo il motivo per cui la carità, la generosità, il piacere di donare agli altri, sono il vero elemento centrale del breve racconto. L’autore scelse di non scrivere un articolo di denuncia sociale, ma un breve romanzo in cui far risaltare tutti questi elementi. Oggi, a 178 anni di distanza, possiamo affermare che mai scelta fu più giusta.
Infine, l’ho amata con gli occhi dell’autore. Nel momento in cui inizi a scrivere è normale guardare ai grandi del passato come riferimento. Ecco allora che nuovi elementi si materializzano tra le pagine lette e rilette e una strana magia ti fa scoprire particolari diversi, significati differenti di parole note. Improvvisamente la nebbia diventa reale, è così densa che non fa scorgere i palazzi posti uno di fronte all’altro, il freddo è così pungente che gela cose e persone oltre ai sentimenti. Gli ambienti gelidi e umidi ci fanno rabbrividire esattamente come il povero impiegato Bob Cratchit e percepiamo l’inutilità del suo gesto di porre le mani davanti alla candela in cerca di un effimero calore.
Maestrie d’autore.
Le stesse che ci portano ad assaporare il pudding con il classico ramo di agrifoglio che dal cuore viene posato sul dolce, nel bere il punch bollente e scaldarci con esso le ossa e il sangue. E ancora, da un prologo tetro, nebbioso e freddo, passiamo all’epilogo di una luminosa e soleggiata mattina di Natale, dove il freddo è ancora presente ma non ci fa più male, è qualcosa che possiamo affrontare con gaiezza e fiducia. Ammiriamo le botteghe ricche di ogni specialità, traboccanti di cibo e felicità, camminiamo nella neve incuranti, ora, di qualsiasi preoccupazione, ascoltiamo lieti i canti di Natale insieme al protagonista e al suo spirito rinnovato. Lo stesso spirito che l’autore ci ha trasmesso.
Molti prima di me hanno scritto qualcosa su Canto di Natale, molti altri ne scriveranno dopo. Mi piace pensare che tra altri 178 anni qualcuno userà frasi simili alle mie, segno che gli occhi delle persone si stupiranno di nuovo nel leggere quelle parole ormai note e la magia sarà compiuta ancora una volta.
Una magia di Natale!
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