Non conosco il gradino profondo della paternità che produce il salto di generazione. Ignoro la sua grandezza naturale.
Il rapporto tra padri e figli è indagato in modo molto profondo in questo libro di Erri De Luca.
In maniera sia analitica che psicoanalitica.
Si fondono insieme sacrifici e risentimenti, gli abbandoni e i rimorsi, la riscoperta di valori da cui ci si era allontanati e il tutto in diverse epoche e civiltà.
Erri De Luca conosce solo una parte del rapporto, quella di figlio e l’autore lo specifica bene nella sua premessa. Essere padri è una consapevolezza e una responsabilità che non può sentire, mentre molto più familiare gli risulta il ruolo di figlio dal quale non è facile emozionalmente staccarsi, ma a livello narrativo è forse un valore aggiunto per storie che raggiungono pienamente l’obiettivo.
Storie estreme di genitori e figli.
Si parte dal sacrificio di Isacco. Siamo portati a pensare allo strazio di un padre che arriva a uccidere il proprio figlio, ma il punto di vista di Isacco è meno indagato. E invece nel racconto percepiamo un figlio che si lascia incondizionatamente sacrificare, conscio di quello che sta per accadere e addirittura aiuta il padre a preparare l’altare sacrificale; ma Isacco vede e sa che non c’è l’animale da offrire. Forse piange, forse ha paura, ma non si ferma e cammina passo dopo passo verso il suo destino.
Conosciamo la conclusione della storia, eppure trepidiamo con lui e l’autore ci guida verso quelle sensazioni.
Totalmente diversa è la sensazione di Marek, prima di diventare Marc Chagall, una sorta di rimpianto per essersi lasciato alle spalle suo padre, la sua terra e l’odore delle aringhe in un malinconico tentativo di rendere giustizia a quel padre, alla sua memoria, attraverso un quadro. (Il padre – olio su tela 1911)
Si passa così da Parigi all’Italia e nei ricordi personali dell’autore con insegnamenti di economia da cui si apprende a non desiderare per imparare una lezione di vita fondamentale: risparmiare molto senza privarsi di niente.
La prosa di De Luca si alterna tra racconti biografici dell’infanzia, che dimostrano l’attenzione dello scrittore fin da piccolo verso i dettagli della vita, a racconti di fantasia con una prosa diretta, efficace, ricca ma senza troppi fronzoli letterari. Chissà, forse la lezione sull’economia è stata anche applicata anche alla scrittura e con notevole profitto. Il tutto fino alla massima espressione narrativa, a mio avviso contenuta nel racconto “Il torto del soldato”, riscritto per l’occasione.
Una figlia che ripudia il proprio padre criminale di guerra. E lo fa con una scrittura misurata ma efficace, in cui la protagonista senza mai scenate o urla, ma con una fredda consapevolezza, rispetta il ruolo di figlia nell’accudire l’ormai anziano genitore. Venire a patti con la propria coscienza, ci confessa l’autore, può essere molto complicato.
Una curiosità: non mi era mai capitato di pensare a dei sampietrini come opere d’arte o collegate a essa. Con De Luca è successo. (racconto Un’espressione artistica). Del resto, il rapporto tra arte e genitorialità viene spontaneo come la Fallaci ci ha insegnato. Cos’è un quadro, un libro, una qualsiasi nostra opera artistica, se non un’estensione di noi stessi, della nostra essenza, un prolungamento della nostra esistenza, così come un figlio: Mi è nato un figlio non moro a cchiu, diceva Eduardo in una sua commedia. Vale per anche per un artista e la sua opera.
È un viaggio nel tempo tra alternandosi tra padri (e madri) e i loro figli, tra gli aspetti psicologici che avvinghiano un rapporto che la psicoanalisi tenta di spiegarci da decenni. Gli esempi storici si sprecano ma la sensibilità di De Luca nel raccontarli è di curiosa ricerca, sensibile e attenta ai ruoli.
Mi viene da chiedere cosa avrebbe scritto l’autore se avesse conosciuto anche la parte del genitore e non solo quella del figlio.
Ma come nel finale aperto di un libro ognuno dia la sua personale risposta.
Foto di copertina di Sabine Ojeil – License by Unsplash – Free use