Cus ripeteva sempre che il fulmine l’aveva colpito due volte e che gli era capitato per le mani un secondo campione del mondo dei pesi massimi. Ma all’epoca io avevo solo tredici anni.
Una profonda tristezza!
È questo lo stato d’animo che mi ha accompagnato mentre sfogliavo le pagine di un libro tanto inseguito quanto desiderato. L’ho divorato avidamente, ma ha lasciato un retrogusto amaro.
Per quelli della mia generazione Mike Tyson era un simbolo, un’icona del pugilato certo, ma anche molto, molto di più.
Era Iron Mike, l’invincibile, l’uomo feroce, il più temuto, il più cattivo, l’atleta mondiale che riempiva le pagine dei rotocalchi, dei giornali sportivi, della TV. Era il pugile che schiantava gli avversari nel giro di trenta secondi, pesi massimi che molte volte “schizzavano” dall’altra parte del ring dopo un un diretto o che si accasciavano dopo un montante.
L’inizio della leggenda della boxe. La nascita di Iron Mike
Era lo sportivo più in voga della fine anni Ottanta e Novanta. Tutti assistevano agli incontri di Mike Tyson solo per vedere il knock out che arrivava, immancabilmente. Il jet set era innamorato di Iron Mike, facevano a gara per averlo come ospite nelle feste esclusive o per garantirsi una poltrona in prima fila ai suoi incontri. Di sicuro è stato una macchina da soldi per chiunque abbia attraversato la sua strada, avversari compresi.
A questa ammirazione è subito seguito il controaltare di un odio feroce verso questo grande atleta, considerato un mostro, un King Kong, un teppista di Brownsville arrestato per 39 volte da minorenne.
Era (è?) il lato oscuro e negativo di un’America perbenista e ipocrita che riversava sull’uomo nero paure e fantasmi di un razzismo sempre presente. Del resto, non era un gigante buono Mike, non era un nuovo Joe Louis, né un ribelle come Alì, ma solo un ragazzo di strada che nel pugilato trovò, temporaneamente, una via d’uscita. Di questo saremo eternamente grati a Cus D’Amato.
Ma se da una parte il riscatto avvenne diventando il più giovane campione del mondo dei massimi a soli vent’anni, unificando tra l’altro le tre cinture e detenendo il titolo per ben quattro anni, dall’altra il denaro, gli approfittatori, presero rapidamente a bilanciare il successo.
E qui interviene la tristezza nella lettura.
Nel libro sono ben descritte le realtà di quei giorni e leggerle dopo anni trasmette amarezza. Una personalità autodistruttiva condita da carenze affettive e culturali che non l’aiutarono a gestire l’enorme successo che, a ben leggere, nemmeno voleva.
Forse il rispetto è l’unica cosa che il ventenne Tyson avrebbe voluto, quello che l’America falsa e ipocrita gli ha negato, prendendolo anzi come bersaglio e occasione per fare carriera. Il nome di Tyson portava visibilità, un treno a cui agganciarsi mediaticamente.
Le sue vicende giudiziarie sono ben note, ma è certo che chiunque lo incontrasse vedeva una gallina dalle uova d’oro da denunciare e con cui fare un po’ di soldi.
Il declino inevitabile di Mike Tyson, uno stile di vita autodistruttivo. Il lato oscuro di Iron Mike
Gli aneddoti sulle droghe usate, sugli allenamenti saltati, sulle orge e i rapporti prima degli incontri, rendono quasi incredibile la lentezza di una parabola discendente che avrebbe consumato in qualche mese un atleta meno dotato. E qui la tristezza sfuma in malinconia nel pensare a quanto avrebbe potuto dare questo sportivo al mondo della boxe usando la testa, se solo si fosse saputo gestire, se invece degli avvoltoi avesse avuto vicino persone fidate come Cus.
Credo, ne sono fermamente convinto, che sarebbe rimasto imbattuto per svariati anni.
Ma non è andata così.
La parabola è stata lenta ma inesorabile e lo ha condotto all’autodistruzione.
Sconcertante leggere degli ultimi anni di carriera e del dopo ritiro. Un luna park di alcol, droghe e vacanze senza fine accompagnate da una quasi obesità e una miriade di figli, ingressi e uscita da centri di disintossicazione.
Il libro è crudo ma anche scritto male, un’altra delusione da questo punto di vista. Poco narrativizzato, si passa da un argomento all’altro senza continuità, con stacchi bruschi, in assenza di una linea temporale adeguata, senza un finale del racconto precedente.
A livello strutturale non l’ho compreso.
Eppure Larry Sloman è specializzato in biografie di grandi personaggi, ma a questo libro manca molto: struttura, ritmo, coerenza, narrativa pura. È come se Tyson fosse ancora sul ring, guidato dall’istinto e sfogasse i suoi pensieri riversandoli su carta così come vengono, senza una razionalità che un libro esigerebbe. È un libro che narra più dell’uomo Tyson che dell’atleta Mike.
Al di là del punto di vista tecnico, il libro andrebbe comunque letto da tutti quelli che hanno apprezzato Iron Mike, per capire lo sportivo e l’uomo, senza pregiudizi o sovrastrutture, ammirando le performance di un atleta che ha dato tanto e molto altro avrebbe potuto dare prima di essere divorato da se stesso e da una società di plastica e approfittatrice che non l’ha mai amato davvero, ma solo usato per poi gettarlo.
Foto di copertina di Prateek katyal – License by Unsplash – Free use